La cotoletta di Karađorđe – Da Tito a Skadarlija

Come un caso è diventato leggenda: Mića, il “Golf” e il Kiev mancato

Nella Belgrado degli anni ’50, quando i camerieri conoscevano i clienti abituali per nome e i cuochi custodivano i segreti delle loro cucine, nacque al ristorante “Golf” un piatto destinato a conquistare l’intero paese. Milovan Mića Stojanović, allora giovane talento ai fornelli, si trovò senza gli ingredienti principali per il pollo alla Kiev preferito da una sua cliente. Invece di arrendersi, inventò una nuova combinazione: una sottile fetta di carne, accuratamente spalmata di kajmak (una crema densa e salata), arrotolata come una crêpe, passata in farina, uovo e pangrattato, poi immersa nell’olio bollente. Il risultato fu una spirale dorata e croccante con un cuore morbido e cremoso. Si dice che nacque nel 1956 e che prese subito il nome di Karađorđe, perché appariva fiera e “eroica”. Con l’umorismo boemo di Belgrado, le fu presto dato anche un soprannome malizioso — Il sogno di una ragazza — accompagnato da un sorriso e da un sopracciglio alzato.

Dalla tavola del maresciallo al menù di ogni buona trattoria

Mića divenne presto lo chef personale di Josip Broz Tito, e questa cotoletta entrò nella leggenda — non solo per il suo sapore, ma anche per la storia del suo creatore. Quando un piatto si trova sia nei saloni presidenziali che nelle osterie popolari, significa che ha superato ogni barriera di classe. Oggi è difficile trovare un ristorante serbo senza la Karađorđeva nel menù: dagli hotel cittadini ai giardini sotto i platani, e a Skadarlija la accolgono come una vecchia amica, servita con patatine fritte, limone e l’immancabile salsa tartara. Basta una passeggiata sui ciottoli e uno sguardo ai menù delle case più celebri per capire che questo piatto è diventato un’istituzione della tavola belgradese.

La Karađorđeva è semplice come una buona storia e complessa come una bella canzone. Può essere di vitello o di maiale, ma la sua anima è il kajmak — che si scioglie come neve al sole di marzo. La carne viene arrotolata stretta, per trattenere i succhi, impanata fino a ottenere una crosta setosa e fritta in modo che all’esterno sfrigoli e all’interno rimanga tenera. Arriva in tavola con limone, che risveglia il kajmak, salsa tartara, che dialoga con la crosta, e un contorno che accompagna il ritmo — di solito patatine fritte. In questa piccola coreografia di sapori sta la ragione per cui gli ospiti stranieri, appena imparano a pronunciare “Karađorđeva”, ne chiedono subito un’altra.

Il segreto è nel kajmak che canta e nella panatura che fruscia

Perché ci conquista ancora oggi: nostalgia, gusto e un tocco di fascino

Ognuno ha la sua prima Karađorđeva. Per qualcuno è stata la cena di maturità in un hotel di provincia con tovaglie bianche e campanelli d’argento; per altri, un pranzo a Skadarlija, tra tamburelli e versi che fluttuano nel fumo; per altri ancora, un pasto veloce dopo una partita, quando si cerca qualcosa di familiare e abbondante. Questo boccone unisce le generazioni, perché in esso vivono i ricordi del cinema jugoslavo, le aneddoti del maresciallo e il soprannome ironico Sogno di una ragazza. E c’è anche un po’ di fascino belgradese: un piatto nato dall’improvvisazione è oggi un classico, simbolo dell’ospitalità domestica e prova che la cucina, come la vita, riesce meglio quando ci si arrangia. Se volete assaggiarla dove la bohème è di casa, Skadarlija è l’indirizzo giusto. Se volete capirla, basta un primo morso — il resto della storia lo racconterà da sola.

Nota per i buongustai curiosi

C’è ancora chi discute se la Karađorđeva sia davvero “nostra” o parente di un classico francese. La scuola alberghiera diede una volta la risposta perfetta: il cordon bleu parla di prosciutto e formaggio, la Karađorđeva di kajmak e del nostro gusto. In breve: stessa idea, ma un’anima diversa.

*Translation powered by AI

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